Mediterranean regions landscapes are cultural systems with forests characterized by the coppice practices. The extent of coppice systems is reviewed and the main cultivation techniques are discussed. The recovery of the practice is a necessary process to achieve sustainability.
The coppice characterizes Mediterranean forestry. The practice has evolved since time immemorial and has played a key role in shaping the landscape. It is therefore part of the cultural heritage and a key component of the territorial identity as a result of the interaction of ecological and silvicultural factors as well as for historical, economic and patrimonial reasons. The extension of Mediterranean coppice systems is discussed, together with the main cultivation techniques and concepts, noting how their formalization has evolved in recent centuries. The recovery and re-proposition of coppice systems, adapted to current times, is a necessary process to achieve sustainability.
Per selvicoltura mediterranea, per lo meno nell’ambito di questa breve dissertazione, non si deve intendere una particolare forma di specializzazione della selvicoltura, che faccia riferimento a conoscenze precipue e sostanzialmente differenti rispetto ad altre nell’ambito di questa disciplina. Più semplicemente, si intende una descrizione delle tecniche selvicolturali che si adottano nella gestione delle formazioni mediterranee ed in particolare dei boschi governati a ceduo, nelle modalità con cui queste tecniche vengono applicate e con le problematiche che ne possono scaturire.
Parlare allora di selvicoltura mediterranea significa parlare della selvicoltura applicata ai boschi di latifoglie arboree (talora arbustive) sempreverdi che dominano e caratterizzano la vegetazione della regione mediterranea: prima fra tutte il leccio.
Questo tipo di vegetazione si estende dalle coste settentrionali dell’Africa a quelle meridionali dell’Europa e si identifica soprattutto con le formazioni forestali a prevalenza di leccio (Quecus ilex L.) al quale si accompagnano altre specie sempreverdi: sughera, quercia spinosa, corbezzolo, filliree, ecc.
Come si può osservare dalla Figura 1, il leccio tende a formare estese formazioni boschive soprattutto nella parte centro-occidentale del bacino del Mediterraneo, dalla penisola italiana al Portogallo e al Marocco, mentre la sua presenza diviene molto meno consistente nella parte nord orientale del bacino, ove è presente più saltuariamente soltanto sulle coste della Croazia, in Albania, nella Turchia occidentale e in Grecia. Tale distribuzione si deve soprattutto alle esigenze di umidità della specie che trovano maggiore corrispondenza nella parte occidentale del bacino del mediterraneo, interessata dalle correnti umide dell’oceano atlantico.
Tuttavia, a fronte di questa esigenza di umidità atmosferica il leccio tollera discretamente l’aridità del suolo che gli permette di distribuirsi, soprattutto sui substrati calcarei, in più fasce di vegetazione. Nella fascia termo - mediterranea si colloca nelle stazioni più piovose o in esposizioni più fresche; in quella meso-mediterranea ha il suo massimo di frequenza; nella fascia sopra–mediterranea il leccio sfrutta le stazioni più calde arrivando, in Francia, fino al Massiccio centrale e al margine italiano delle Alpi [1].
Un elevato grado di resilienza ha permesso a queste formazioni di resistere, nel corso dei secoli, ad uno sfruttamento eccessivo da parte dell’uomo oltre che ad una serie di agenti perturbatori, primo fra tutti il fuoco che come fattore ecologico ha svolto un ruolo molto importante nel plasmare la vegetazione mediterranea.
Queste formazioni forestali, da tempo immemore, sono state utilizzate per assolvere a diverse utilità, in particolare la produzione di legna e legname e il pascolo degli animali domestici. Sono state soprattutto queste modalità di sfruttamento a determinare, sino ad oggi, la struttura e la composizione specifica della gran parte di questi boschi: il governo a ceduo per la produzione di legna da ardere, quello a fustaia rada per favorire il pascolo.
Il governo a ceduo sfrutta una caratteristica naturale che possiedono, quasi esclusivamente, le latifoglie: poter emettere fusti (polloni) dalla ceppaia quando l’albero viene tagliato o danneggiato dal fuoco, o da un altro evento accidentale.
Come emerge dai dati dell’ultimo Inventario Nazionale delle Foreste e del Carbonio [2] il governo a ceduo è nettamente prevalente nei boschi di latifoglie italiani (Figura 2).
Circa il 45% dei boschi di latifoglie, corrispondenti a 3.067.060 ettari, è gestita secondo questa forma di governo, mentre poco più della metà (28%), corrispondenti a 1.910.155 ettari, sono governati a fustaia.
Se si entra nel dettaglio delle formazioni a prevalenza di leccio (Figura 3), si evince che la superficie dei boschi cedui è pari a 365.349 ettari; se si escludono le formazioni forestali non gestite, si può affermare che la lecceta è governata a ceduo per il 79% e soltanto per il restante 20% a fustaia.
Osservando i dati relativi alla ripartizione dei cedui di leccio sul territorio Italiano emerge che la Sardegna è la regione che ha la massima superficie occupata da questa formazione.
Tabella : Superficie dei boschi di leccio, nelle diverse regioni italiane, ripartita per modalità di gestione.
REGIONE | Fustaie | Fustaie transitorie | Cedui | ND | Totale |
---|---|---|---|---|---|
Trentino | - | - | - | 360 | 360 |
Veneto | - | - | 2.241 | 747 | 2.988 |
Liguria | 366 | - | 5.862 | 7.677 | 13.906 |
Emilia Romagna | - | - | 368 | 368 | 736 |
Toscana | 2.890 | 1.445 | 108.030 | 13.749 | 126.115 |
Umbria | 1.106 | - | 34.285 | 4.424 | 39.815 |
Marche | - | - | 4.459 | 2.230 | 6.689 |
Lazio | 1.474 | - | 35.372 | 11.054 | 47.899 |
Abruzzo | 362 | - | 2.896 | 5.430 | 8.687 |
Molise | - | - | 390 | 781 | 1.171 |
Campania | 1.841 | - | 20.913 | 14.362 | 37.117 |
Puglia | 2.719 | - | 11.653 | 2.331 | 16.702 |
Basilicata | 1.491 | - | 2.237 | 5.220 | 8.949 |
Calabria | 6.716 | - | 20.522 | 16.418 | 43.656 |
Sicilia | 7.581 | - | 4.928 | 5.686 | 18.195 |
Sardegna | 63.764 | 6.343 | 111.194 | 66.034 | 247.335 |
Totale | 90.311 | 7.789 | 365.349 | 156.869 | 620.318 |
Oltre a questo, un dato singolare che emerge dai dati dell’Inventario Forestale Nazionale è che le fustaie hanno un’importanza maggiore rispetto al resto d’Italia. È corretto ritenere che i cedui siano la forma di governo più applicata nell’Isola ma, tuttavia, le fustaie occupano una superficie piuttosto consistente.
Probabilmente il lungo periodo di abbandono delle attività selvicolturali, con conseguente evoluzione dei cedui in strutture transitorie, ha sicuramente influito su questa differenza rispetto al resto d’Italia e talvolta ha indotto a classificare, nell’ambito dei rilievi dell’INFC, questi soprassuoli in evoluzione in boschi d’alto fusto. Per contro vi è da osservare che i dati derivati dalla Carta Forestale del Regno d’Italia del 1939 [3] mostrano, per la Sardegna, una sostanziale coerenza con l’attualità. Le ragioni di questa relativa diffusione del governo a fustaia sono probabilmente da ricercare in una specificità tipica dell’Isola, dove l’attività pastorale e zootecnica sarda ha influito in modo notevole, oltre che in una bassa intensità abitativa che ha richiesto un minor fabbisogno di legna e legname rispetto ad altre regioni d’Italia.
Tabella : La superficie dei boschi della Sardegna (in ettari) nella Carta Forestale del Regno d’Italia del 1936; i boschi di leccio sono probabilmente classificati come “Altre specie”
| Superficie (ha) |
---|---|
| 58.293 |
| 90.695 |
| 20.851 |
| 45.232 |
| 10 |
| 1.512 |
| 179 |
| 49 |
| 801 |
| 1.747 |
| 7.553 |
| 4.886 |
| 5.653 |
| 53.330 |
| 2.281 |
| 137 |
| 293.209 |
Una situazione analoga a quella italiana si riscontra anche nelle nazioni vicine, ed in particolare in Francia. Se si osservano i dati dell’inventario forestale si nota che la maggior parte della provvigione è concentrata nelle classi diametriche più piccole (10 – 15 cm), ovvero nei cedui. In Corsica si stimano circa 10.000 ettari di fustaia a fronte di una superficie complessiva di 56.700 ettari occupati da boschi e macchie a prevalenza di leccio [4].
In Spagna la modalità di gestione di questa specie è più articolata e marcatamente determinata dall’attività zootecnica. La gran parte dei boschi di leccio sono formazioni forestali con copertura arborea inferiore al 20%. Si tratta di formazioni particolari più riconducibili, anche per le modalità di gestione, a pascoli arborati (dehesas in Spagna e montados in Portogallo) per la produzione di ghianda per l’allevamento dei maiali, più che a veri e propri boschi [5].
Anche nel caso della Spagna, tuttavia, la gran parte dei boschi di leccio, veri e propri, sembra destinato soprattutto al governo a ceduo (Monte bajo) [6].
Questa netta prevalenza del governo a ceduo nei boschi di leccio trova pieno riscontro nella letteratura forestale in cui non è descritto, né sperimentato, un modello selvicolturale che delinei le modalità di governo della fustaia di questa latifoglia: tecnica di rinnovazione, intensità e periodicità dei prelievi, turno - periodo di curazione, ecc.
Nel Congresso di Selvicoltura del 1954, diversi autori analizzano le modalità di gestione dei boschi Italiani prendendo in considerazione, nelle latifoglie, le diverse possibilità di governo: nel caso dei boschi mediterranei si menzionano soltanto i boschi cedui [7].
Nei trattati di selvicoltura diversi autori, [8], non prendono in considerazione il governo a fustaia del leccio o lo sconsigliano [9].
Bernetti [1] considera questa specie “inadatta al governo a fustaia” e definendo il “governo a ceduo l’unico sistema selvicolturale che dia una produzione commerciale relegando la possibilità di governo a fustaia alle sole funzioni protettive, estetiche o ricreative oppure per il pascolo della ghianda.
Le ragioni che, fino ad ora, hanno fatto preferire il ceduo alla fustaia sono svariate. Sicuramente la scarsa qualità del legname da lavoro ritraibile dalla fustaia, sia per la forma contorta dei fusti, che per la pesantezza e la difficile lavorabilità [1], ha fatto preferire il governo a ceduo da cui è possibile ricavare legna da ardere di ottima qualità e carbone (cannello di leccio).
L’ambiente mediterraneo, poi, è considerato ad elevato rischio soprattutto in merito alle problematiche legate agli incendi boschivi. Frequenti periodi di siccità spesso collegati ad eventi incendiari sconsigliano forme colturali che richiedono l’immobilizzazione di un elevato capitale legnoso per lunghi periodi di tempo.
La piccola proprietà, inoltre, in generale necessita di redditi che si susseguono ad intervalli temporali relativamente brevi e tecniche di utilizzazione non particolarmente specializzate, tali da poter essere praticate anche in un ambito familiare di autoconsumo della legna.
Non ultima è anche una ragione prettamente selvicolturale: la gestione del ceduo è relativamente semplice, al contrario di quella della fustaia. Garantisce infatti una facile perpetuazione del bosco con bassissimo rischio nei confronti della rinnovazione naturale, che è sempre immediata e garantita.
La tecnica di coltivazione del bosco ceduo, tralasciando la composizione dendrologica che viene generalmente considerata come invariante, si basa su cinque principali elementi:
la modalità di taglio dei polloni;
il periodo di taglio;
il turno;
la matricinatura: intensità, distribuzione, età delle matricine;
estensione ed avvicendamento delle tagliate.
Gli elementi più importanti che determinano il funzionamento di questo sistema selvicolturale sono il turno e l’intensità di matricinatura.
Gli altri aspetti, quali modalità e stagionalità di taglio, estensione ed avvicendamento delle tagliate, sono rilevanti ma non sono così importanti e discriminanti rispetto ai primi due.
Riguardo al taglio, per favorire l’affrancamento dei polloni si suggerisce di eseguirlo sempre in prossimità del terreno a circa 5 cm dal suolo (a ceppaia). Oggi, dato che il taglio viene eseguito con la motosega, si usa lasciare l’altezza delle ceppaie tra i 5 e i 20 cm dal suolo [10](Piussi, 1995), senza che vi siano particolari conseguenze negative.
L’epoca del taglio coincide generalmente con il periodo di riposo vegetativo della pianta ed è stabilito dalle norme dei Regolamenti forestali o dalle prescrizioni di massima.
Tuttavia questa consuetudine, secondo alcuni autori, non trova sempre riscontro e necessità sotto il profilo biologico della specie. Ciancio (1985) [11] per i cedui di castagno ritiene che l’epoca del taglio non ha influenza significativa sulle caratteristiche della rinnovazione agamica.
Il turno che attualmente viene praticato nei cedui mediterranei di leccio è nella stragrande maggioranza dei casi ampiamente superiore a quello stabilito dalla normativa. Questa è una tendenza che si è susseguita nel tempo a fronte di contingenze particolari che in un primo momento hanno visto un minore interesse per la legna da ardere e successivamente un progressivo aumento dei costi di utilizzazione. Se fino a qualche decennio fa i turni minimi stabiliti dalle prescrizioni di massima oscillavano tra i 12 e i 24 anni, oggi si può affermare che siamo in presenza in gran parte di soprassuoli “invecchiati” che vengono utilizzati ad età sempre maggiori.
Il quesito che è necessario porsi di fronte a questa tendenza è: fino a che età le ceppaie possono assicurare una buona capacità pollonifera tale da garantire l’edificazione del nuovo soprassuolo? Le prime risposte sembrano incoraggianti, da diverse esperienze risulta che le ceppaie di leccio conservano una buona capacità rigenerativa anche in età molto avanzate. In Maremma, ceduazioni condotte su soprassuoli con oltre i 50 anni di età hanno evidenziato una buona capacità pollonifera delle ceppaie di leccio, nonostante l’età, e lo sviluppo di polloni da ceppaie di altre specie (es. corbezzolo) rimaste quiescenti.
In Corsica, ceduazioni sistematiche su soprassuoli di circa 80 anni hanno mostrato una buona capacità pollonifera delle ceppaie e consentito al bosco di rigenerarsi.
Nella foresta di Montarbu in Sardegna, in occasione della redazione dei Piani Forestali Particolareggiati del Demanio Forestale, sono stati osservati cedui di leccio derivanti da tagli effettuati su soprassuoli d’alto fusto. Nonostante si trattasse di ceppaie plurisecolari il nuovo soprassuolo è stato edificato quasi esclusivamente dai polloni, mentre sembra avere avuto un ruolo piuttosto scarso la rinnovazione da seme.
La scelta del turno ha delle ovvie conseguenze sulla produzione legnosa e sugli aspetti economici che ne derivano. Con gli attuali costi, per rendere conveniente l’utilizzazione boschiva dal taglio si devono ricavare almeno 80 – 100 m³/ha di legna da ardere, al di sotto di questa soglia la ceduazione non è più remunerativa. Si vanno così affermando turni economici, che rendono massimo il valore di macchiatico, rispetto al turno della massima produzione legnosa. I ridotti incrementi (2 – 3 m³ ha-1 anno-1) di queste formazione fanno si che questi livelli di provvigione si raggiungano intorno ai 40 – 50 anni di età del bosco.
Le conseguenze dell’allungamento del turno per il sistema ceduo se da una parte ha sicuramente dei benefici nei confronti della fertilità della stazione, dovuto al superiore accumulo di biomassa al suolo, dall’altra provoca una perdita di biodiversità a livello di composizione specifica. Soprattutto nei boschi di leccio che si sviluppano su substrati acidi o decalcificati si osserva la progressiva scomparsa delle ericacee eliofile susseguita dalla scomparsa delle specie eliofile a vantaggio di un bosco puro di leccio che con la sua intensa copertura tende ad eliminare anche molte specie erbacee. Si va così manifestando una spontanea riduzione della complessità compositiva e strutturale [12] ed un probabile diradamento delle ceppaie poiché con turni sempre più lunghi le ceppaie che rimangono aduggiate tendono a morire.
Le matricine hanno svariate funzioni e compiti: integrare la rinnovazione agamica del bosco con quella gamica al fine di sostituire progressivamente le ceppaie morte, garantire la variabilità genetica, proteggere le ceppaie tagliate dall’eccessiva insolazione e dal vento, fornire un maggior reddito mediante la produzione di legname da opera. Nel contesto dei boschi cedui mediterranei, l’integrazione della rinnovazione agamica ha una rilevanza maggiore, rispetto alle altre funzionalità.
È importante osservare che il numero e le dimensioni delle matricine giocano un ruolo molto importante nel funzionamento del sistema ceduo, soprattutto se abbinate all’allungamento del turno di utilizzazione; in particolare un eccessiva matricinatura può avere delle conseguenze negative tali da mettere a repentaglio la perpetuazione di questa modalità di gestione.
Le matricine, infatti esercitano un’azione di concorrenza nei confronti dei polloni, sia tramite l’aduggiamento, che colpisce soprattutto le specie eliofile, sia a livello di apparato radicale riducendo la disponibilità idrica (che nel clima mediterraneo rappresenta il fattore limitante principale) e di elementi minerali. Una matricinatura elevata, oltre a deprimere l’accrescimento dei polloni, a cui spetta il principale ruolo produttivo, può compromettere la stabilità del bosco ceduo che a lungo andare rischia di essere sostituito da soprassuoli costituiti da alberi radi, con chiome molto espanse.
Merendi (citato in Benassi [13]), uno dei primi studiosi ad affrontare il tema nei cedui di leccio, consiglia una matricinatura molto rada e ritiene giustificabile una matricinatura più intensa solo in relazione alla produzione di ghianda per il pascolo dei suini. Sempre Merendi [14] ritiene che molti cedui siano stati «rovinati» da una matricinatura troppo intensa.
Alcuni autori (Giordano, citato in Benassi [13]) suggeriscono norme di matricinatura più intense, ad esempio per la foresta di Cecina, con il rilascio di 120 piante ad ettaro, ma con turni di 15 anni. La Marca et al. [15], nell’ambito di una complessa ricerca condotta nell’arco di 14 anni su cedui di leccio del Gargano conclude che «la capacità produttiva dei soprassuoli sembra sia strettamente correlata all’intensità delle matricine rilasciate a dote del bosco. L’intensità di matricinatura infatti influisce in senso negativo sulla produzione legnosa del ceduo». I risultati migliori si sono avuti con una dote di 50 rilasci ad ettaro.
Il problema delle matricine tuttavia riguarda anche gli altri boschi soprattutto quelli di specie quercine eliofile in cui l’intensità di matricinatura incide sulla sopravvivenza della stessa specie.
Nella tradizione colturale e nella normativa nazionale (prescrizioni di massima) il numero di matricine da rilasciare è sempre stato limitato: da 25 a 50 fusti. Si è avuto un notevole incremento a seguito dell’emanazione della legge 431/1985, secondo una concezione che riduce il paesaggio all’estetica in forme e modi sempre più decontestualizzati che prescindono dalla conoscenza dei sistemi colturali e delle tecniche che lo hanno prodotto e che sole possono conservarlo.
Con l’aumento del numero di matricine non è infatti garantito un aumento della rinnovazione gamica che dipende, non tanto dalla quantità di semenzali inizialmente germinanti quanto dalla quantità di semenzali che riescono a sopravvivere a svariate avversità fra cui, soprattutto, l’aduggiamento. L’obiettivo principale quindi è evitare l’eccessivo ombreggiamento esercitato dalle matricine che rischia di sopprimere più ceppaie di quante piantine riescano ad affermarsi da seme. Per tali ragioni l’orientamento attuale è quello di rilasciare un basso numero di matricine: pochi rilasci, ben conformati ed opportunamente distribuiti sul terreno, in corrispondenza dei vuoti o delle zone più rade o meno fertili, sono in grado di assicurare meglio la sostenibilità di questa forma di governo con una buona produzione di seme o con la disponibilità, al prossimo taglio, di ceppaie più vigorose dotate di una elevata facoltà pollonifera.
Anche sulla distribuzione delle matricine nella tagliata si tende sempre più a superare lo schema della matricinatura uniforme che non sembra dare garanzie né di rinnovazione né di contenimento dell’erosione. Nella pratica, inoltre, questa uniformità va a scapito della qualità perché diventa sempre più difficile trovare il soggetto adatto alla distanza voluta.
La distribuzione delle matricine sulla superficie della tagliata non deve essere necessariamente regolare, ma deve rispondere in primo luogo ad esigenze colturali (maggiore numero di matricine in corrispondenza di radure, stazioni meno fertili o più esposte all’erosione o all’incedere dei venti, ecc., minor numero in corrispondenza degli impluvi o nelle zone di conca), ad occorrenze panoramiche (rilascio di quinte o barriere visive) o a necessità di esbosco.
Per quanto riguarda il contenimento dell’erosione, la copertura del suolo è ridotta e poco assicurata da piante riservate con le chiome distanziate di qualche metro, ma è piuttosto tutelata dalla rapidità (normalmente 4-5 anni) con cui i nuovi polloni entrano in contatto reciproco.
Un accorgimento per definire l’entità di matricinatura è stabilire una soglia di copertura delle stesse. In precedenti esperienze acquisite nell’ambito della pianificazione forestale in Sardegna, in particolare nella foresta di Montarbu, è stata prescritta una soglia di copertura delle matricine che subito dopo il taglio non deve superare più del 10% dell’area interessata al fine di favorire lo sviluppo di un buon piano di vigorosi polloni. Le matricine sono rilasciate in corrispondenza dei crinali dove il bosco è più rado e la stazione è meno fertile e dove possono, quindi, meglio esercitare la loro funzione ricostituente del bosco.
L’ultimo aspetto molto importante nella gestione del ceduo è l’estensione e l’avvicendamento delle tagliate.
Nello stabilire la dimensione delle superfici su cui intervenire concorrono diverse considerazioni di ordine gestionale, idrogeologico ed estetico, dipendenti da diversi fattori: esboscabilità, pendenza, esposizione, visibilità, contesto paesistico, ecc.. Probabilmente ai fini del funzionamento del sistema in sé alcuni di questi aspetti possono sembrare sopravvalutati, ma tenerne conto è spesso di grande importanza nei confronti della pubblica opinione. L’aspetto estetico può creare diversi problemi dato che nella concezione comune la tagliata è il momento in cui si distrugge il bosco mentre da un punto di vista selvicolturale è il momento in cui il bosco si rinnova. In Corsica per ridurre l’impatto idrogeologico ed estetico delle tagliate hanno messo a punto uno schema in Figura 10 in cui a seconda della pendenza può essere decisa la superficie della tagliata oppure prevedere il prelievo in più prese. Diverse normative regionali hanno disciplinato questo aspetto ponendo dei limiti dimensionali e temporali in modo da salvaguardare soprattutto dal rischio idrogeologico.
Va infine ricordato che un’attenta ripartizione delle tagliate può ridurre il danno provocato dal pascolo degli animali selvatici che nei casi più gravi rischia di compromettere la perpetuazione del bosco.
In letteratura si dà per scontato che il governo a ceduo può considerarsi una modalità di gestione sostenibile che presenta diverse caratteristiche positive: assoluta sicurezza della rinnovazione, bassa intensità colturale, disponibilità di habitat diversi, controllo e conservazione della biodiversità arborea ed arbustiva. In uno studio [16] condotto nella Toscana meridionale in un bosco ceduo di leccio utilizzando gli uccelli come indicatori biologici è stato osservato che la ripresa dei tagli, dopo un lungo periodo di abbandono colturale, ha determinato una maggiore grado di eterogeneità con il conseguente aumento dei valori degli indicatori di qualità ambientale e di rarità.
Secondo questo studio la selvicoltura del ceduo si configura come un keystone process, un processo che ha un ruolo fondamentale nel mantenere la struttura di una comunità ecologica, soprattutto per quanto riguarda il tipo e il numero di specie che la compongono.
Secondo un nuovo paradigma ormai affermato il concetto clementsiano di “omeostasi” è stato sostituito dal quello di “regime di disturbi naturali” [17]. Questi sono processi chiave delle dinamiche connesse agli ecosistemi forestali e rappresentano un fattore caratteristico per le strategie evolutive delle specie che influenza fortemente la struttura, la composizione e il funzionamento delle foreste fino a determinare modelli spaziali e temporali a scala di paesaggio.
Una gestione basata su un regime di disturbi sembra maggiormente in grado di mantenere la resilienza degli ecosistemi forestali se le strategie selvicolturali conservano i processi generatori di eterogeneità strutturale e compositiva a scale multiple.
In questo senso il governo a ceduo può rappresentare, se correttamente condotto, una modalità di gestione in grado di emulare i disturbi naturali a piccola e media scala producendo quegli effetti ecologici necessari per mantenere un elevato grado di biodiversità e di resilienza.
Rimane allora da chiedersi il perché di tanta ostilità da parte di alcuni settori dell’opinione pubblica nei confronti di questa forma di gestione in particolare e della selvicoltura in generale. Senza dubbio è mancata e continua a mancare un’adeguata attività di informazione in grado di spiegare che per conservare un paesaggio colturale e naturale in continuo divenire, e che non può mantenersi intatto come un quadro o una scultura custoditi in un museo, è necessario continuare a svolgere le tecniche e le pratiche che l’hanno prodotto e che sole possono dinamicamente manutenerlo.
In fondo come è già stato osservato, il rapporto dell’opinione pubblica con il bosco e la selvicoltura ripropone il cosiddetto “paradosso del mattatoio”, secondo il quale molte persone hanno un buon rapporto con la mucca e con la bistecca, però nessuno vuol sentir parlare di mattatoio come anello di congiunzione tra i due.
Il fatto che l’uomo, per garantire la propria esistenza, debba sfruttare le risorse naturali, viene volutamente dimenticato.
Sembra che anche la selvicoltura sia una specie di “mattatoio boschivo”, che si preferisce non conoscere nella palese contraddizione di chi mitizza una natura incontaminata ed idealizzata e nello stesso tempo apprezza il caminetto, la pizza cotta a legna ed ostenta, nella propria casa, un arredamento “naturale” fatto di legnami pregiati.
Occorre invece ricostruire il rapporto tra uomo e bosco superando il concetto di tutela “museale” della natura che ne rifiuta l’utilizzo attraverso una serie attività di comunicazione ed educazione che deve iniziare dalla scuola.
È importante far capire quanto l’uomo dipenda da un uso sostenibile della natura che non persegua solamente i concetti di bellezza ma che sia guidato anche da regole precise e dall’interesse della nostra sopravvivenza.
Si tratta di creare un rapporto autentico e profondo con la natura che superi l’idea estetizzante del paesaggio come bellezza soltanto da contemplare e che contestualizzi il rapporto funzionale con le necessità e le attività umane alle quali spesso viene anche negata dignità.